giovedì 31 gennaio 2008

In Giappone scoppia una nuova «sindrome cinese»

Tokyo. Sindrome cinese in Giappone. Per fortuna non ha niente a che fare con l`atomica, ma da ieri nel Sol Levante si sta diffondendo una psicosi sulla qualita` del cibo importato dalla Cina. Confezioni surgelate di ravioloni al vapore _ in cui e` stata accertata la presenza di insetticida - hanno mandato all`ospedale una intera famiglia, con una bimba di 5 anni tuttora in gravi condizioni. Altre persone hanno accusato sintomi di intossicazione e, dopo che ieri la notizia e` diventata da prima pagina e da prime time in tv, oggi svariate decine di persone si sono presentate negli ospedali sospettando di essere vittime di intossicazioni. Il Governo ha tenuto una riunione straordinaria e ha chiesto alla Cina di rafforzare le misure di controllo. Le autorita` cinesi, irritate, hanno detto di avere gia` rafforzato I controlli e di attendere informazioni piu` precise da Tokyo. Japan Tobacco, la cui divisione alimentare importa il cibo che ha intossicato la famigliola nella prefettura di Chiba, ha perso in Borsa l`1%, dopo esser crollata del 7% in apertura delle contrattazioni. Tutte le societa` giapponesi che importano cibo dalla fabbrica cinese ritenuta all`origine del problema hanno dovuto sospendere l`import. E le tv stanno cavalcando la "sindrome cinese", moltiplicando la segnalazione di casi che spaventano il pubblico.
Dai giocattoli ai cibi per animali, la qualita` dei prodotti cinesi destinati all`export ,negli ultimi mesi, ha suscitato sempre maggiori dubbi e accuse, specialmente negli Usa. In Giappone i consumatori sono particolarmente sensibili a questo tema. Di recente alcuni scandali alimentari hanno investitori produttori del Sol levante: biscotti e dolci la cui data di scadenza e` stata modificata, carne bovina spacciata come suina, e cosi` via. I responsabili di queste aziende sono stati additati a un avera e propria pubblica esecrazione, anche se non si sono verificati seri casi di intossicazione dallo scandallo del latte avariato del 2000. Ora da Tokyo si leva una domanda al mondo intero: quanto ci possiamo fidare dei cibi confezionati in Cina?

Stefano Carrer
Il Sole 24 ore

martedì 29 gennaio 2008

Anche in Giappone la recessione bussa alle porte

La recessione bussa alle porte non solo della prima economia mondiale, ma anche della seconda, rafforzando i timori di una recessione su scala globale.
«Appare molto probabile che l'espansione dell'economia giapponese continuata per quasi 70 mesi a partire dall'inizio del 2002 sia arrivata al termine e che ormai l'economia sia entrata in recessione», afferma un rapporto della Goldman Sachs pubblicato venerdì, che ha contribuito a spingere in ribasso l'indice Nikkei della Borsa di Tokyo di quasi il 4% (-3,97% a 13.087,91 punti). Secondo l'economista della banca d'affari americana Tetsufumi Yamakawa, la colpa non è tanto degli effetti della crisi subprime Usa, ma di fattori interni come il crollo dell'attività edilizia (legato all'introduzione di norme più rigide) e il ristagno dei consumi. E dai consumatori non potrà arrivare una spinta che compensi il rallentamento dell'export già evidenziatosi in dicembre soprattutto verso gli States, ma anche in direzione di altri mercati che cominciano a soffrire per la frenata americana.

Finora il governo del premier Fukuda non ha fatto né promesso niente di particolare per sostenere l'economia. Ma larghi settori del partito di governo (il liberaldemocratico) hanno già cominciato a invocare che la Banca centrale torni ala politica dei tassi zero (anche per frenare l'ascesa dello yen) e a suggerire interventi sul piano fiscale (riduzione delle imposte su dividendi e capital gain). La Banca del Giappone ha confermato settimana scorsa ai tassi allo 0,5% e ridotto le stima di crescita del Pil nell'anno fiscale che si chiude a marzo intorno all'1 per cento.
L'attesa è per il vertice finanziario del G-7 che si terrà a Tokyo il prossimo 7 febbraio: secondo le anticipazioni, Tokyo dovrebbe premere affinché venga affermata la necessità di contrastare in modo collettivo i venti di recessione. E quindi perché nessuno abbia poi a obiettare se la Banca centrale nipponica dovesse tornare alla anomala politica ultra-espansiva dei tassi zero.

Stefano Carrer - il Sole 24 Ore

domenica 6 gennaio 2008

Addio Salaryman

Dagli anni novanta il mercato del lavoro in Giappone è in continua evoluzione, a causa della drastica riduzione dei benefici a vantaggio dei lavoratori dipendenti.

Fino a quel momento, i “salarymen”, simbolo dell’operosità del Sol Levante risollevatosi dopo il secondo conflitto mondiale, avevano trovato un impiego a vita nell’azienda alla quale si dedicavano completamente. Invece si sta riscontrando una vera e propria inversione di tendenza: sempre più giovani vengono assunti presso aziende straniere con contratti anche part time e ritmi di lavoro più umani. Inoltre vengono apprezzati sempre più il rendimento lavorativo, il superamento di obbiettivi consentendo una gestione del tempo più libera da parte dei giovani. Tutto questo a discapito però di una certa stabilità contrattuale. In precedenza l’azienda giapponese si identivicava con la famiglia, forniva al dipendente un salario equo alle proprie necessità e garantiva una stabilità a vita. Questa uguaglianza era riscontrabile anche nei salari, tra i dipendenti ed i dirigenti vi era al massimo un 25% di differenza, era previsto un aumento con l’avanzare dell’età ed una pensione consistente pagata in parte dallo Stato ed in parte dall’azienda. Successivamente alla Seconda Guerra Mondiale, per ricostruire il Giappone, fu richiesto un enorme sforzo, che però garantì la ripresa economica, per questo motivo le aziende chiedevano in cambio fedeltà ed abnegazione. In genere si lavorava fino a mezzanotte, per riuscire a dormire al massimo 3-4 ore per notte. I giorni di ferie previsti all’anno, circa 20 giorni, non venivano mai adoperati, se non in misura minima, per non avere poi in seguito difficoltà nel chiedere un aumento e per evitare di non essere al passo degli altri colleghi. Il vero e proprio nucleo familiare accettava questo compromesso in cambio del benessere e della sicurezza economica, le mogli attendevano pazientemente i loro mariti ed era loro compito prestare attenzione alla salute del coniuge come dovere nei confronti dell’azienda stessa.

Questo discorso non rientra però nell’attuale atteggiamento di maggiore produttività, in precedenza si dava più importanza alle ore di servizio prestate e non alla qualità del compito svolto. Questo sistema egalitario però si basava anche su una società e su un mondo che è notevolmente cambiato: gli alti stipendi un tempo servivano a pagare le università dei figli dei dipendenti, mentre oggi , una volta superato l’esame di ammissione, i corsi veri e propri risultano una passeggiata.

I giovani scelgono le aziende anche sulla base di una maggiore versatilità degli orari di lavoro e le donne non sopporterebbero più di veder tornare così tardi i propri mariti a casa ed anzi, essendo ormai anche queste parte del mercato del lavoro, spesso sono proprio loro ad avere l’esigenza di contratti part time o con orari flessibili.

Quindi possiamo ormai trovare molte caratteristiche del mercato lavorativo giapponese anche nel sistema occidentale, come se la figura del dipendente nipponico stesse cambiando identità. Ormai i vari signori Matsushita e Toyota, saranno soltanto un ricordo, come anche i gruppi di manager che si attardavano nei locali a bere del sake. Come anche il modello di produttività giapponese, sarà messo da parte per un sistema più meritocratico che egalitario.

Cambierà anche la nostra visione del Paese del Sol Levante?

Isabella Garofali

Fonte: The Economist