Dagli anni novanta il mercato del lavoro in Giappone è in continua evoluzione, a causa della drastica riduzione dei benefici a vantaggio dei lavoratori dipendenti.
Fino a quel momento, i “salarymen”, simbolo dell’operosità del Sol Levante risollevatosi dopo il secondo conflitto mondiale, avevano trovato un impiego a vita nell’azienda alla quale si dedicavano completamente. Invece si sta riscontrando una vera e propria inversione di tendenza: sempre più giovani vengono assunti presso aziende straniere con contratti anche part time e ritmi di lavoro più umani. Inoltre vengono apprezzati sempre più il rendimento lavorativo, il superamento di obbiettivi consentendo una gestione del tempo più libera da parte dei giovani. Tutto questo a discapito però di una certa stabilità contrattuale. In precedenza l’azienda giapponese si identivicava con la famiglia, forniva al dipendente un salario equo alle proprie necessità e garantiva una stabilità a vita. Questa uguaglianza era riscontrabile anche nei salari, tra i dipendenti ed i dirigenti vi era al massimo un 25% di differenza, era previsto un aumento con l’avanzare dell’età ed una pensione consistente pagata in parte dallo Stato ed in parte dall’azienda. Successivamente alla Seconda Guerra Mondiale, per ricostruire il Giappone, fu richiesto un enorme sforzo, che però garantì la ripresa economica, per questo motivo le aziende chiedevano in cambio fedeltà ed abnegazione. In genere si lavorava fino a mezzanotte, per riuscire a dormire al massimo 3-4 ore per notte. I giorni di ferie previsti all’anno, circa 20 giorni, non venivano mai adoperati, se non in misura minima, per non avere poi in seguito difficoltà nel chiedere un aumento e per evitare di non essere al passo degli altri colleghi. Il vero e proprio nucleo familiare accettava questo compromesso in cambio del benessere e della sicurezza economica, le mogli attendevano pazientemente i loro mariti ed era loro compito prestare attenzione alla salute del coniuge come dovere nei confronti dell’azienda stessa.
Questo discorso non rientra però nell’attuale atteggiamento di maggiore produttività, in precedenza si dava più importanza alle ore di servizio prestate e non alla qualità del compito svolto. Questo sistema egalitario però si basava anche su una società e su un mondo che è notevolmente cambiato: gli alti stipendi un tempo servivano a pagare le università dei figli dei dipendenti, mentre oggi , una volta superato l’esame di ammissione, i corsi veri e propri risultano una passeggiata.
I giovani scelgono le aziende anche sulla base di una maggiore versatilità degli orari di lavoro e le donne non sopporterebbero più di veder tornare così tardi i propri mariti a casa ed anzi, essendo ormai anche queste parte del mercato del lavoro, spesso sono proprio loro ad avere l’esigenza di contratti part time o con orari flessibili.
Quindi possiamo ormai trovare molte caratteristiche del mercato lavorativo giapponese anche nel sistema occidentale, come se la figura del dipendente nipponico stesse cambiando identità. Ormai i vari signori Matsushita e Toyota, saranno soltanto un ricordo, come anche i gruppi di manager che si attardavano nei locali a bere del sake. Come anche il modello di produttività giapponese, sarà messo da parte per un sistema più meritocratico che egalitario.
Cambierà anche la nostra visione del Paese del Sol Levante?
Isabella Garofali
Fonte: The Economist
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